Recentemente ho letto alcuni articoli scientifici sul vasto tema dell’intolleranza sui social network. L’Unione Europea sta infatti proseguendo un percorso serrato per includere l’incitamento on-line all’odio –hate speech– nell’elenco dei reati comunitari. Il mondo della ricerca (dalla criminologia digitale alla psicologia, fino alle tecnologie informatiche) è ampiamente coinvolto nel dibattito e nell’identificare metodologie di prevenzione e di contrasto ad utilizzi impropri -e non sempre facili da monitorare- delle piattaforme on-line, a partire dai social network.
In uno di questi articoli, gli autori hanno monitorato a lungo contenuti e commenti sulle pagine di appassionati di Arti Marziali, arrivando ad una conclusione disarmante: argomenti popolari causano un largo numero di commenti intolleranti. La moderazione può prevenire il palesarsi di commenti più offensivi, tuttavia un terzo del numero totale dei commenti , anche sulle pagine moderate, sono da ritenersi “intolleranti”.
E’ superfluo precisare che la ricerca si è concentrata su gruppi on-line di appassionati di MMA. Chiunque abbia un po’ di consuetudine con i social network o i forum che consentano commenti, può benissimo avere un’idea di quanta litigiosità ci sia; di quanto la discussione facilmente si sposti dal contenuto originale; di quanto spesso la si prenda sul personale. Che si parli di cucina, di tutorial su come si fanno i nodi da marinaio o di Arti Marziali, poco importa.
Così, pensando e guardando al nostro piccolo mondo dell’Aikido -che delle Arti Marziali rappresenta una fetta sottile ma non minima, non sembra che la situazione sia granché diversa.
Sarà: mancando ufficialmente una qualche forma di competizione, si assiste ad una sublimazione della competitività che assume talvolta forme grottesche tanto al Dojo quanto on-line. Beninteso: la competitività è una valvola ineliminabile del nostro sistema. Aiuta a fare i conti con l’aggressività, che è un altro elemento che ci portiamo dalla nascita, e la può incanalare verso qualcosa di costruttivo. Il concetto di kaizen, l’equivalente giapponese di quel miglioramento continuo così ben condensato dal filosofo Fichte, “l’uomo esiste per migliorarsi sempre di più dal punto di vista morale e per rendere migliore tutto ciò che lo circonda”, è ciò a cui una disciplina marziale tende.
L’Aikido -meglio, colui che pratica Aikido- ama ripetere e ripetersi che “la più grande vittoria è quella su se stessi”. L’Aikido costruisce, attraverso lo scambio fisico all’interno di una coppia, competenze relazionali in cui si esalta la “comunicazione non verbale”. Anzi, la si sublima nel cercare più o meno disperatamente di attivare la modalità 以心伝心 “i shin den shin“, quel rapporto “da cuore a cuore” tra maestro e allievo, che cammina sul sottile confine tra totalità, manipolazione e suggestione. Confine che, a sentire tutti gli allievi e la gran parte dei maestri non viene mai attraversato, rimanendo tutti saldamente nell’irenico mondo di una relazione purificata, perfetta, a prova di tutto.
Poi succede che ci si affacci alla finestra dei social network e si nota che da “non verbale”, la comunicazione risulti spesso molto verbale. A tratti verbosa.
Che nel languire di un lento convergere verso una ripresa delle attività, si faccia i conti con una realtà che nel dare ad alcuni il coraggio di non rimanere inermi e fermi di fronte a tutto questo assurdo che ci ha investiti, ad altri ha restituito gruppi smembrati, praticanti disillusi e responsabili di corsi in cerca di identità.
Succede anche che in questo periodo di inedia da tatami negati, le uniche fiammate che il nostro mondo di Aikidoka digitali riesca a produrre siano generate da contenuti apertamente critici (verso la tal disciplina, verso il tal gruppo, verso il tale maestro).
E così via. Tizio diffonde un tutorial? E’ uno sprovveduto senza pedigree. Il gruppo xyz ha organizzato uno stage on-line? Eh ma l’Aikido è sudore sul tatami non su Zoom. Caio ha capito che sparlando del nostro movimento ottiene che tutti parlino sempre di lui? E giù a dargli addosso, senza capire che si fa il suo gioco.
A volte ho la sensazione che l’essere umano in generale, il marzialista in particolare e in special modo il praticante di Aikido, soffra un po’ di “invidia del bene”.
Non è un termine coniato da un Freud raffreddato ma credo che ci farebbe bene, come praticanti e come uomini e donne che vivono in una società complessa, soffermarci sul concetto di “invidia”.
Nella loro saggezza, gli antichi inventarono questa parola dando all’invidia la semantica forte di “non-vedere”, di “guardare di storto”. Questo guardare di storto non è lo sguardo mai fisso sugli occhi del compagno di pratica, come si insegna in certi gruppi onde non venire “catturati” dallo sguardo… Piuttosto un’abitudine che deriva da un’attitudine non educata -o mal-educata- fatta di continuo sospetto nei confronti dell’altra persona; di continua necessità di confronto; di continua ricerca dall’esterno di conferme a ruoli autoattribuiti al nostro interno; di rassicurazioni che in fondo siamo noi ad aver ragione e gli altri torto.
Se si prova a guardare diritto, magari si riesce pure a individuare che cosa non va di ciò che vediamo. Ma di certo si evita di ignorare il bene e il bello che questa pratica indica ed esorta a coltivare per sé e per gli altri in una dinamica di relazioni di vere e proprie comunità. Scegliendo l’invidia, scegliendo di “guardare e non vedere”, si contribuisce attivamente ad un degrado tossico a tutti i livelli e ad un’amplificazione della solitudine, tanto nella pratica reale quanto nel confronto on-line, di cui poi è tanto facile lamentarsi ignorando di esserne spesso i coautori.
Ancora peggio, ci comportiamo talvolta come se volessimo negare a noi stessi di raggiungere quel bene, impedendolo contemporaneamente ad altri. Con un autolesionismo di fondo ben nascosto dentro fiumi di parole, a volte colte dalle primizie della grammatica ma fondamentalmente vuote.
E’ chiaro che il nostro ego è lì, famelico e privato per giunta delle sue abitudini, almeno di quelle di cui si nutriva fino a un anno fa. E ruggisce se misura la propria insoddisfazione con la stabilità altrui, o perlomeno con il tentativo di costruirla, amplificata a volte ad arte dalla cassa di risonanza del web.
Se basta il web per azzerare la nostra capacità di entrare in relazione con la alterità rappresentata da un post, facciamoci qualche domanda rispetto al percorso fatto fin qui e, con molta umiltà e con voli a quota molto più bassa, torniamo al lavoro quotidiano su di noi, cosa che nessun decreto legge può rallentare, bloccare o impedire.